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Narco News Issue #39

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Yucatán aspetta l’arrivo del Subcomandante Marcos

Nella città di Mérida molti non sanno chi sia il “Delegato Zero”… ma nelle campagne l’aria è carica di aspettativa e una storie di ribellione


di Al Giordano
Otro Periodismo con la Otra Campaña in Yucatàn

10 gennaio 2006

Mérida, Yucatan, 2 gennaio 2006: Doici anni dopo che gli indios dello stato più a sud del Messico, Chiapas, si sono sollevati in armi sotto il motto di Libertà! Democrazia! Giustizia! L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha scelto il primo giorno del nuovo anno 2006 per inviare il suo portavoce il Subcomandante Insurgente Marcos, per sei mesi, in tutti gli angoli della Repubblica Messicana.


Del video noticiario: Yucatán espera a Marcos
La sua missione “ascoltare la gente semplice e umile che lotta” ha detto il Subcomandante nell’agosto scorso.

In Yucatan, stato in cui questo touro arriva il prossimo mercoledì 18 gennaio, la gente semplice e umile che lotta ha lottato per più di cinquecento anni.

Ci misero 170 anni gli spagnoli a conquistare gli indios maya di questa regione, e i secoli seguenti da allora non furono una passeggiata per la sfilata di poteri faraonici che hanno provato ad imporre qui la loro volontà. E, una volta che gli invasori ottennero il “controllo”, imposero il sistema delle caste – in cui gli europei ed i loro simili godevano di più diritti legali e libertà che i nativi della penisola caraibica. Fino ad oggi le élite mercantili di Mérida sono conosciute come “la casta divina”, e continuano a maltrattare gli indios, i lavoratori e i poveri.

Quindi, nel 1847, dopo un secolo e mezzo di conquista, cominciò la guerra delle Caste in Yucatan, nella quale i maya perseguitarono le caste superiori – europei, meticci e quelli che consideravano se stessi come “antichi reali maya” (il vostro corrispondente non potrebbe dire se questi arroganti reclami di lignaggio siano veri) – in ogni villaggio della penisola, obbligandoli a cercare rifugio dentro le mura di Merida e Campeche (oggi capitali dello stato). Fu una guerra di caste che, secondo gli storici, durò 85 anni per eliminare gli invasori. E c’è dell’altro, compresa l’occasione, nel 1918, quando la Repubblica Socialista dello Yucatan anticipò i russi formando il primo stato socialista indipendente sulla Terra (gli Stati Uniti dovettero inviare i marines per soffocarla) e, caro lettore, tratteremo di questo nelle prossime due settimane, ma, prima, la domanda del momento:

Perché Marcos viene nello Yucatan?

Come ha spiegato il tenente colonnello zapatista Moisés il 16 sttembre scorso, quando gli zapatisti annunciarono l’invio di Marcos – nel ruolo di “Delegato Zero”, precedendo una seconda e più grande ondata di zapatisti che “attraverserà” il paese a partire della prossima estate – ad eseguire il lavoro:

… è nostro dovere compiere l’esplorazione del terreno in cui andiamo a portare i nostri compagni e compagne dei nostri popoli, così siamo noi, i militari, c’è sempre qualcuno che va in avanscoperta. Avanguardia è chi va davanti e controlla il terreno che ancora non conosciamo, e il compito di colui che va in avanscoperta è controllare cosa c’è; se c’è del pantano, se il terreno è roccioso, spinoso e altre situazioni che l’avanguardia osserva e ci comunica per sapere cosa fare e come fare.

Noi sappiamo che voi interpretate l’avanguardia come colui che va a dirigere, o che sa come si deve combattere o colui che comanda e che è l’unico che ha ragione e che ne sa di più e meglio e che per questo sono i capi…noi non lo intendiamo così, l’avanguardia per noi è coì come vi ho già detto, è chi va a conoscere il terreno, un terreno per noi sconosciuto e che è necessario andare su questo terreno per avanzare nella lotta, questo lavoro ci tocca, ai militari, l’esplorazione del terreno…

Il lavoro di avanguardia di esplorazione del terreno riguardante l’Altra Campagna è toccato al compagno Subcomandante Insurgente Marcos. Sarà il primo ad uscire e dietro lui andiamo anche noi, turnando per fare il lavoro…

Il riconoscimento è stato specifico: Marcos andrà a esplorare “il terreno, terreno per noi sconosciuto”.

Alcuni minuti più tardi nella stessa riunione della selva a La Garrucha, Chiapas, Marcos precisò il piano e l’itinerario del suo viaggio di sei mesi iniziato domenica 1° gennaio. Sono dovuti trascorrere 21 anni (entrò nella selva del Chiapas per la prima volta nel 1983 o 1984), forse di più, da quando vide la realtà dello Yucatan con i suoi propri occhi. Ma nelle sue parole di quella notte ha dimostrato di essere consapevole della sua storia ribelle.

Raccontano gli storici, se ci crediamo, che i luoghi del Messico dove per primo arrivò il pensiero di critica anticapitalista e l’impegno per costruire una nuova società con nuove relazioni sociali, furono la costa del Chiapas e la penisola dello Yucatan; tra i lavoratori del caffè e “henequeneros” (lavoratori di henequen, fibra di agave). Lì è dove inizierà l’Altra Campagna.

Uno di quei pensatori critici anticapitalisti, Felipe Carrillo Puerto (1872-1924), continua a essere oggi un eroe in tutta la penisola: un giornalista e difensore dei diritti degli indios che fu eletto governatore nel 1922. Carrillo Puerto aveva già combattuto con gli zapatisti originali (del generale Emiliano Zapata), è stato membro del Partito Comunista e in seguito del Partito dei Lavoratori Socialisti. Lui (come in generale gli yucatechi) fu uno dei primi difensori del suffragio femminile.

Un rinascimentale, Don Felipe fu anche autore del testo della canzone popolare “La peregrina”, dedicata all’amante e sposa, la giornalista politica della California Alma Reed.

Nel giro di due anni, come governatore eletto democraticamente, qui cominciò la costruzione del socialismo democratico.

La dittatura militare lo mise davanti al plotone di esecuzione due anni dopo. Per la costruzione di un socialismo di radice indigena e democratica – se vedete le sedi municipali in posti come Tekax (22 mila abitanti, la maggioranza parla il maya o il chol), le parole nella parte superiore recitano: “Palazzo Municipale Socialista” – non si fermò davanti all’assalto quotidiano del denaro, del potere militare e dei mezzi il cui compito è fermarlo.

Sembra il ruolo perfetto: Marcos, portavoce di centinaia di migliaia di indios del Chiapas, di lingua tzotzil, tzeltal, tojolabal e chol, che si reca nell’altra grande regione maya (dove la lingua è semplicemente conosciuta come maya: i linguisti dicono che tutto deriva dalla stessa famiglia di idiomi e parole), luogo di rinomate piramidi da Chicén Itzà fino a Tulum, con una bellissima storia di ribellione e rifiuto di essere conquistati.

Nelle strade e nei mercati di Mérida

E così, sempre ottimista a proposito di questo matrimonio fatto nei sette cieli maya, l’équipe mobile di Otro Periodismo con la Otra Campaña è arrivata a Mérida alla vigilia del nuovo anno e passo nelle strade e nelle piazze e nei mercati a intervistare la gente semplice e umile sull’imminente visita del loro compagno rivoluzionario.

“Cari yucatechi, che cosa pensate della visita che farà lo zapatista Marcos la prossima settimana?”.

Le seguenti citazioni sono testuali e rappresentative della maggioranza dei commenti raccolti:

  • La verità è che ho sentito la gente parlare di loro (gli zapatisti), però non ne so molto.

  • Ho sentito parlare di Marcos però non conosco la sua politica. E’ del del Chiapas? Davvero non so niente della sua vita.

  • La verità è che non so molto. So che il loro leader è Marcos, però non so niente sul suo lavoro.

  • Qui non abbiamo opinioni su questo. Non ho sentito niente su di lui.

  • Non so chi è. E’ una brutta cosa che venga perché non sappiamo niente di lui.

  • Viene qui? Chiunque venga è lo stesso.

  • Se viene per fare del bene, va bene!

  • Non sono interessata. Non so niente di questo.

  • Tantomeno sappiamo perché viene. Ho visto nel giornale che viene però non so perché il comandante viene qua. Per me è uguale se viene o non viene. Non abbiamo visto le sue ide. Non abbiamo una visione chiara di questo.

  • E’ il presidente del Chiapas? No? Si, è benvenuto qui.

  • Sinceramente non so molto circa questo signore. Non so se ha cambiato le cose là dove stà.

Certe persone sapevano qualcosa circa gli zapatisti e il loro Delegato Zero. Ma, per sei giornalisti – gente che lotta anche contro l’industria dei mezzi di comunicazione che approfitta di noi, ci ammutolisce, censura e ci emargina – che hanno lavorato per diffondere la buona parola zapatista per tanti anni, le notizie erano poco stimolanti nelle strade e nei mercati di Mérida:

  • A me non va bene che una persona si nasconda dietro a una maschera. Penso che dovrebbe scoprirsi e fare proposte concrete per aiutarci e creare nuovi posti di lavoro, affinché la gente non debba ne rubare ne mendicare.

  • Credo che lo mandi il governo. Mi piacerebbe dirglielo in faccia.

  • Scoprirà che questo è un luogo tranquillissimo. Non c’è bisogno di portar armi. Loro (gli zapatisti) hanno destabilizzato lo stato.

  • Non è bene che venga, perché è uno stato molto pacifico, è il più pacifico del Messico.

  • Non vogliamo un governo o qualcosa del genere. Gli yucatechi sono pacifici.

Caro lettore: puoi ascoltare questa genta dire la sua parola – puoi anche vederli mentre la dicono – nel video e audio che presenta questa brigata come evidenza di questa storia.

Emerge un commento preponderante, ma è più facile comprenderlo se si guardano le loro espressioni e si ascoltano i loro toni – e si guarda il tipo di lavoro manuale che molti di loro fanno – mentre dicono la loro parola

Altri, invece (una minoranza tra questi lavoratori che abbiamo incontrato al loro lavoro o per le strade dei quartieri di lavoratori in questa città), sono stati più entusiasti:

  • Ho saputo che ha aiutato i poveri di là (in Chiapas), specialmente quel comandante. Dovrebbero far lo stesso qua!

  • Non conosco le sue proposte. Se dio vuole, porterà idee per toglierci dai conflitti in cui stiamo.Perchè la situazione economica qui è brutta.Ogni giorno è peggiore. Altre persone della categoria dei commercianti pensano che il governo è buono. Io no. Se dio vuole, Marcos porterà qualcosa di nuovo per il paese. Stiamo vivendo nella miseria e loro, i politici, vanno in televisione con tutto questo cinismo mentre rubano al popolo. Abbiamo bisogno di nuove idee per cambiare questo sistema corrotto.

  • E’ un bene che venga. Mi incanterebbe parlare con lui, ascoltare le sue opinioni sul Governo. Tutto qui va male. E mentre starà qui dovrebbe mangiarsi della “cochinita pibil”, dei “papadzule y escabeche”…sarebbe bello se qualcuno che sappia cucinare glieli facesse.

  • Va bene. Sarebbe bene conoscerlo. Non è altro che una visita. Questo è bene. Non viene per comandarci o qualcosa del genere. Gli yucatechi hanno sempre le braccia aperte ai visitatori.

Risuona il messaggio

Benché la gran maggioranza della gente che abbiamo intervistato mancasse di una conoscenza profonda di Marcos o della causa zapatista, quando cominciavano a parlare dei problemi di questa regione e delle loro vite quotidiane, emergeva un altro altro commento: il loro messaggio è in molti casi identico a quello degli zapatisti, e la loro sfiducia nei politici, partiti politici e nel sistema economico imposto:

  • [I leader dei partiti politici] non aiutano mai. Non ho nemmeno un bagno. Non ho niente. Sono tutti uguali. Fanno le cose solo per restare al potere.

  • Non ne so molto di politica messicana, ma la crisi qua a Merida è reale, specialmente per la gente umile. Il governo deve stare più a contatto con la gente. Quelli che comandano non ascoltano la gente. Abbiamo bisogno di più comunicazione tra il governo e la gente.

  • La politica è un sacco dei trucchi. Tutto quello che [i politici] sanno fare è rubare e rubare e rubare.

  • Chi, in qualunque paese non vuole un cambiamento a beneficio di tutti?

  • La situazione qua è brutta. Le vendite sono più basse che in altri anni.

  • Il governo non aiuta molto la gente. Si aiutano solo tra di loro. Vanno al potere per poter avere un mucchio di soldi. Promettono e promettono, ma non cambia mai niente.

Ma lo spirito predominante in attesa del Delegato Zero degli zapatisti in questa capitale commerciale di 800 mila abitanti – almeno secondo la serie di interviste fatte – è il disinteresse, o lo scarso interesse. La visita non sta generando grandi passioni tra il pubblico in generale – almeno non prima dell’arrivo del visitatore. Come ha detto una giovane a Otro Periodismo riguardo alla visita di Marcos: “È qualcosa di inaspettato. Non ha molta influenza, quindi non ci saranno problemi.”

Questo, dalla prima murata città di Merida. Ma fuori dalle vestigia di quelle mura coloniali è possibile ascoltare una voce diversa, che reclama la testimonianza dello specchio ribelle che rappresenta Marcos, col suo nero passamontagna, per quella stragrande maggioranza del paese che si dibatte nella povertà materiale ma è arricchita dallo spirito di lotta.

Kanxoc vuole vedere il subcomandante

Tra i popoli maya leggendari, la cui resistenza alle imposizioni dell’alto risale alla Conquista e alla Guerra di Caste, c’èè Kanxoc, Yucatan, dove tre mila contadini e le loro famiglie hanno visto le coltivazioni di mais devastate dagli uragani Emily (18 luglio 2005) e Wilma (22 ottobre 2005), ancora più distruttivo, nell’ottobre scorso. Kanxoc è una terra coraggiosa dove né la polizia statale né federale, né i militari messicani, osano entrare. Una volta, la gente del posto prese in ostaggio il governatore dello stato fino a fu concesso quanto promesso loro. Un anno fa, un reporter del Diario di Yucatan che aveva pubblicato storie su di loro, ritenute disoneste dalla gente del paese, entrò nella piazza del paese dove fu circondato dagli abitanti che lo trascinarono per i capelli, lungo la strada.


La squadra, attraverso un interprete, ha chiesto alle autorità maya parlanti del paese, che volevamo intervistare gli abitanti sulle loro vite – i loro pareri sulla visita nello stato del Subcomandante Marcos. La visita è stata approvata ed il 3 gennaio, sei veri giornalisti sono arrivati, alle 11 del mattino, nella piazza dal paese.

Mentre nostri due veicoli giravano la piazza, circa cento abitanti stavano già aspettando i reporter. Dopo 20 minuti dal nostro arrivo, le persone era già 300: donne vestite con le loro tuniche fiorite, uomini, bambini ed anziani. I reporter hanno acceso le videocamere ed i registratoti ed hanno messo in moto la penna. Il nostro interprete ha tradotto il saluto di questo corrispondente in lingua maya: “Grazie di riceverci. Siamo giornalisti che lottano contro l’industria dei mezzi di comunicazione, come anche voi lottate contro i ricchi e i potenti. Siamo qui in Yucatan per riportare la visita del subcomandante zapatista Marcos. Non rappresentiamo nessun partito politico né l’Esercito Zapatista. Rappresentiamo solo noi stessi. Siamo qui solamente come giornalisti indipendenti per ascoltare quello che tutti – uomini, donne, bambini ed anziani – desiderate raccontarci sulle vostre vite e la vostra realtà a Kanxoc. Ed ovviamente vogliamo conoscere le vostre opinioni sincere sulla visita del subcomandante”.

“Sulla visita del subcomandante”, comincia un uomo, “è una visita per vedere un esempio della povertà della gente. Dovrebbe venire a vederla. C’è gente che viene qua solamente per fare politica… ma quando arrivano al potere abbandonano la gente”.

Il signore comincia a spiegare una delle proteste più urgenti della popolazione: di come, dopo la totale devastazione delle coltivazioni di mais per la sussistenza del paese, l’anno scorso per gli uragani, dopo che il governo ha firmato cedolini accettando di assgnare 840 pesos (circa 80 dollari) per ettaro ai contadini che avevano perso le loro coltivazioni, “non”va bene.”Non stanno pagando”. Peggio, si lamentano altri, alcune cedole contengono pagamenti parziali che sono stati rubati. Un contadino che aveva quattro ettari ha ricevuto solo dieci pesos, meno di un dollaro, invece di quanto promesso. Altri hanno ricevuto solo pagamenti parziali di 250 pesos per ettaro, meno di un terzo di quanto autorizzato. Nessuno ha ricevuto quanto promesso. “Non ci dà niente perrimpiazzare le nostre perdite”, dice una donna in lingua maya. “Ai nostri mariti non danno neanche un peso”.

Nel frattempo, la gente soffre la fame. Deve pagare per avere il cibo che una volta coltivava: il mais. Ma non c’è denaro perché non hanno mais da vendere. “Vi chiediamo “, dice un altro ai giornalisti, “di fare pressione sui potenti perché rispondano ai nostri bisogni”.

Un’altra importante lamentela, ascoltata più volte in questo caldo giorno, è sulla nuova strada incompiuta verso il paese. Dopo molti anni di lotta, il governo dello stato dello Yucatan, alla fine degli anni novanta ha costruito una strada a Kanxoc dalla città di Valladolid (di 62 mila abitanti), una piccola metropoli sulla carrozzabile Merida-Cancun. Ma la strada non è mai stata terminata lasciando i 1200 cittadini di Kanxoc solo con strade pedonali per trasportare al mercato il mais che lì cresceva – e tornerà a crescere la prossima stagione – . “Devono caricarsi il mais in spalla per molti chilometri”, grida un cittadino. I politici dei partiti politici istituzionali del Messico sono venuti a Kanxoc a promettere di finire la strada. Ma dopo le elezioni non è successo niente. La gente di Kanxoc ne ha abbastanza dei politici.

“Non votiamo per nessuno, vero compagni”?, grida all’assemblea. Un mormorio di voci esprime quello che sembra un forte accordo in lingua maya, mentre le teste si muovono dall’alto in basso.

“Ci danno provviste e questo va bene, ma devono mantenere quello che promettono”.

Inoltre, “la scuola sta cadendo. Le porte sono marce e rotte”.

Interviene un altro uomo:

“Non vogliamo che venga un’altra persona ad ingannarci. Vogliamo una persona che venga e mantenga la sua parola… abbiamo fatto sei viaggi per incontrare il governo e chiedergli il pagamento promesso. Ho le carte che hanno firmato promettendolo. I pagamenti non sono arrivati… qui ogni volta che un politico viene chiede la forza dei contadini. E quando arriva al potere, ci abbandona”.

Un altro uomo di Kanxoc aggiunge:

“Sulla visita del Subcomandante Marcos: penso che si una buona cosa perché la sta facendo senza ambizioni politiche”.

Le donne della comunità si avvicinano in massa ai microfoni. Diverse parlano contemporaneamente mentre l’interprete tenta di seguirle. Da quando sono arrivati i reporter e fino ad ora, non c’è stato né tempo o spazio per chiedere a nessuno il proprio nome, tanto gli abitanti erano ansiosi di parlare ed ascoltare. Le donne vogliono parlare della clinica di salute, di come lì non c’è il medico il fine settimana, i dottori non parlano maya – “solamente un’infermiera parla maya” – e di come la clinica prende da loro 20 pesos, anche se incinte, se non hanno fatto lavoro per il governo (attraverso un concetto che risale a tempi della schiavitú, conosciuto col nome di “fajina”).

Un uomo di 56 anni di nome Bartolo dice:

“Riteniamo importante la visita del Subcomandante Marcos perché sembra che tutte le cose che chiede il Subcomandante Marcos siano un bene per tutti, è bene per i popoli indigeni. Il governo dice a tutti gli stesso, ma non è vero. Il Subcomandante Marcos è un buon lottatore. Noi poveri non abbiamo diritti costituzionali. Se abbiamo un poco di terra, i ricchi la invadono.”

“Non abbiamo acqua da bere”, commenta un altro cittadino di Kanxoc, “né elettricità, strade, marciapiedi… qui non c’è scuola superiore…”.

“Non abbiamo bestiame. Produciamo il poco che abbiamo”, dice un altro. “Oggi siamo molto abbandonati”.

“Sono il capo della polizia”, dice un uomo. “Ma non ho poliziotti. I politici mi avevano promesso di mandarmi dieci poliziotti, ma non l’hanno fatto. Sono un comandante ma non posso fare niente senza poliziotti. A volte i giovani causano problemi, litigano tra di loro. Un comandante da solo non può fare niente con dieci giovanotti. Non abbiamo auto per mandarli alle autorità a Valladolid. A volte invadono perfino la chiesa e la usano per fumare. Non c’è sicurezza. Non abbiamo illuminazione pubblica”.

Questa è gente lasciata alla sua sorte, in terre distrutte dai cicloni, isolata, (la strada per Kanxoc finisce qui, non porta da nessuna parte).

Una donna parla: “Molta gente e bambini sono malati – raffreddori, denutrizione, diarrea, dolori addominali. È da quando abbiamo perso le nostre coltivazioni di mais”.

Un gruppo di donne viene dai reporter e, attraverso l’interprete, ci chiede di visitare la chiesa del paese con loro: un vecchio edificio coloniale che si staglia contro l’ardente e penetrante sole. All’ingresso, il sagrestano appare e parla in lingua maya: “Sappiamo che è brutta. Le pareti stanno marcendo. Il vecchio altare cadrà presto”.

Arte preziosa del secolo XVI adorna le pareti della chiesa, marcendo e cadendo. Una crepa corre dal soffitto dove un raggio crea una breccia. I giornalisti sono invitati a filmare il paese dal tetto. Saliamo per la scala a chicciola fatta di tronchi, filmiamo l’orizzonte a 360 gradi di questa penisola piatta come una torta. Scendiamo ed un gruppo di uomini si avvicina…

Il cenote di San Joaquín

“Vorremmo farvi vedere il cenote [pozzo d’acqua dolce a grande profondità tipico dello Yucatan – n.d.t.]”, dice il suo portavoce designato, segnalando in direzione di una fonte sotterranea di acqua cristallina simile a quelle che, in alcuni villaggi sulla rotta turistica di Merida-Chichén Itza-Cancun-Playa del Carmen-Tulúm, sono attrazioni per turisti e sportivi acquatici. “Vi chiediamo di parlare al mondo del nostro cenote, così forse qualcuno ci aiuterà a svilupparlo ed attrarre turismo”.

“Il problema è”, dice un altro, “che la strada passa qua vicino, ma non c’è modo di accedere al cenote”.

“Un altro problema è che l’elettricità non arriva fino a lì per illuminarlo”.

Un po’ dopo, guidiamo per due chilometri tra tetti di case, stendibiancheria e campi di mais squassati dalle tormente, e camminiamo alcuni metri nei campi su pietre lisce, per trovare il buco nella terra ed una scala di pietra. Seguendo i locali, scendiamo al primo livello. Il caldo brutale del giorno lascia il posto all’aria condizionata naturale.

“Vogliamo sistemare questo cenote, pulirlo, che si veda meglio”, dice uno dei nostri accompagnatori di Kanxoc. “Ma per fare questo abbiamo bisogno di aiuto. Non possiamo farlo da soli. Non abbiamo sufficienti risorse per fare questo. Ci sono altri paesi che hanno cenotes e ricevono molti visitatori. La gente vende artigianato. Quello di cui abbiamo bisogno è più aiuto per fare questo, oltre a portare la luce perchè si possa vedere com’è bella l’acqua trasparente”.

Le stalattiti pendono dal soffitto di roccia. Mentre i nostri occhi si abituano all’oscurità, diventano più definitie Un uomo portare una torcia. La batteria è finita. Dà un colpo ma non funziona. Un uomo ne porta un’altra. Questa funziona. I giornalisti scendono ad un altro livello, avendo cura delle telecamere e dei registratori. Più sotto, mentre i nostri occhi si abituano all’oscurità, c’è lo stagno: “Quanto è profondo?”, domanda qualcuno. “Molto profondo”.

Qui, nell’oscurità, con l’umidità e freschezza dell’aria condizionata naturale, nella quiete, arrivano i pensieri ed i ricordi. Ed uno pensa di ritornare sulle strade, ad altri luoghi isolati, maltrattati dalla povertà e dalla miseria, a cinquecento anni di dominazione contro cinquecento anni di resistenza… ad una terra chiamata Chiapas… con le sue belle vallate e cascate e grotte e meraviglie naturali, come quella che troviamo a Kanxoc… e come per anni la gente in quel posto ha aspettato che qualcuno venisse – “forse qualcuno ci aiuterà a sistemarlo” – ma in posti dove il governo o i grandi poteri ed il denaro sono venuti ad “aiutare”, l’aiuto ha semplicemente portato più sfruttamento, più povertà, più miseria…

Ed un giorno, forse 21 o 22 anni fa, un gruppo di ribelli, incluso un ventenne, venne con idee da “aiutare” questi impoveriti nativi, ma trovò, invece, che invece di avere qualcosa da insegnare agli indigeni del Chiapas, aveva tutto da imparare da loro. Ed in qualche modo, durante questa conversazione di 21 anni, nacque un esercito ribelle, “una macchina da guerra fuori dello Stato”, un Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, ed un subcomandante chiamato Marcos… ed oggi, in diversi luighi di una terra chiamata Chiapas, dove una volta c’erano meraviglie della natura abbandonate e dimenticate, ci sono ora luoghi dove la gente viene da tutto il mondo. E sì, visitano questi preziosi posti, e sì, comprano artigianato, e danno un aiuto marginale agli emarginati, ma non è questo il punto.

Il punto è che gli indigeni ribelli del Chiapas hanno smesso di aspettare che qualcuno venisse ad “aiutarli”, ed anche se hanno dovuto farlo senza denaro, con malattie, con cibo inadeguato, con una “educazione” inesistente o, peggio, malevola, circondati da nemici violenta – i nuovi e vecchi padroni delle piantagioni ed i loro paramilitari, i capi politici, la polizia, i militari – in qualche modo in quella conversazione di massa che cominciò tra alcuni e crebbe per includere centinaia di migliaia, ognuno cominciò ad aiutare l’altro invece di aspettare che qualcuno venisse ad aiutare. La stessa cosa è accaduta dopo che l’uragano tropicale Stan (18 settembre 2005) scaricasse un torrente d’acqua sul Chiapas, tra altre terre, causando straripamenti e crolli, distruggendo coltivazioni di mais come hanno fatto qui Wilma ed Emily a Kanxoc, distruggendo strade e ponti, lasciando molte comunità zapatiste isolate dal resto del mondo, affamate e senza protezione dal fronte freddo sopraggiunto in seguito. Ed anche allora, i ribelli hanno organizzato sforzi di assistenza indipendenti dai governi, una campagna di aiuto “dal basso a sinistra”, invece di aspettare che arrivasse qualcuno.

Ed oggi, la vita sta migliorando in quei posti. O oggi, la gente controlla la sua vita. Oggi, la gente – la gente maya, come la gente di Kanxoc – reifiuta gli aiuti di qualsiasi governo, ma la sua vita sta notevolmente meglio. Un posto dove nessuno più cerca “aiuti”, ma, piuttosto, nella sua autonomia, si aiutano tra loro e, contemporaneamente, aiutano il mondo intero a trovare una strada fuori da questo sistema inumano che strappa tutto quello che può di noi che ancora siamo esseri umani.

E qui, nell’oscurità meditativa del cenote di San Joaquín, non ci sono aiuti, non c’è Stato, non c’è sistema, ma c’è un silenzio che parla, no, sussurra… forse come la Croce Parlante del tipo che provocò la Guerra di Caste tanti anni fa… sussurra… “libertà… giustizia… democrazia”…

In qualche posto dal fondo di questo pozzo, questo fresco cenote, qualcosa manda segnali. Un pensiero, forse, o per meglio dire, un sogno… che finalmente qualcuno possa arrivare con l’assurdo ma irresistibile sogno che sussurra che nessuno deve arrivare… che non c’è Stato, che non c’è un potere più alto, che non c’è nessuno da “aiutare”. Ma che c’è ancora la mano di uomo e di un donna, pronta a fare miracoli.

Forse un giorno, forse un giorno vicino, qualcuno possa venire a dimostrare che nessuno deve venire. Forse. Forse. Ma è forse solo un sonno diurno in un giorno caldo placato dall’acqua fredda che emerge dal cenote di San Joaquín, nella terra bassa chiamata Kanxoc, Yucatan, dove la gente semplice ed umile ancora lotta e dà battaglia.

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