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Chiapas: il nuovo volto della guerra - Parte II

L’orizzonte è la privatizzazione delle risorse naturali della selva, porta chiapaneca del corridoio biologico che va da Puebla a Panama


di Andrés Aubrey
La Jornada

28 marzo 2007

Le risorse naturali: un casus belli. A partire da 1995 si strutturarono le politiche di contrainsurgencia a dispetto delle ricorrenti sessioni del dialogo di San Andrés, definite nei due tomi del Manuale della guerra irregolare redatto dalla Segreteria della Difesa Nazionale (Sedena). La sua teoria militare ricorda quanto detto da Mao che “il popolo sta alla guerriglia come l’acqua al pesce ”, ma preferisce un’altra tattica: “Si può rendere impossibile al pesce la vita nell’acqua (nelle comunità contadine), agitandola, introducendo elementi dannosi alla sua sopravvivenza, o pesci più ‘bravi’ che l’attacchino, lo perseguitino e l’obblighino a sparire o a correre il pericolo d’essere mangiato da pesci voraci ed aggressivi ” (tomo II, n. 547). L’insieme di questi pesci sono i paramilitari, designati come “civili armati”.

Effettivamente, la Sedena svuotò l’acqua delle comunità, le penetrò. I pesci più “bravi” non sono come prima agenti esterni (gli epici pistoleri, che ritornavano a vivere in città dopo avere compiuto la loro missione), né guardias blancas (un’elite esogena che spariva dopo i suoi crimini); sono, al contrario, indigeni delle comunità con “lavoro” a tempo completo ed in situ. I primi furono organizzati come MIRA (Movimento Indigeno Rivoluzionario Antizapatista), con un’azione molto discreta. Questa nuova formula ha bisogno di finanziamenti, il che, essendo ufficiale, deve essere giustificato da nobili cause: in questo caso la “rivoluzione”. Altri seguirono con più costanza: la loro sigla si adornò di “ sviluppo”, “pace” o “diritti umani” come Paz y Justicia, reclutato nel PRI il cui laboratorio fu la zona nord dello stato e le sue vittime furono molti incarcerati e molti sfollati. Tanta violenza ed i nuovi tempi suscitarono scissioni per cui i vari integranti penetrarono nel seno del PRD, dell’Unione Regionale Contadina Indigena (URCI) e, dal cuore della selva verso Teniperlas, dell’Opddic (Organizzazione per la Difesa dei Diritti Indigeni e Contadini), creata dal fondatore del MIRA, che sono la nuova punta di lancia dell’attuale sessennio nella selva.

Questi vecchi-nuovi pesci “bravi”, come i folcloristici mapaches e pinedistas della Rivoluzione che si dicevano villistas, sono pure contadini ed indigeni fedeli ai vecchi padroni priísti o agli antichi latifondisti ed agiscono da loro carne da cannone. Adornati dalle nobili cause delle loro sigle, occupano ora 3mila ettari delle ex-terre nazionali, dal nord fino al sud verso Nuevo Momón. Dato che offrono terre per nuovi ejidi, legalizzabili o già legalizzate, drenano molti contadini afflitti dall’insicurezza agraria ma, a differenza della gestione pluralistica dell’EZLN (un mondo in cui ci stiano molti mondi; non dividere, ma unire; non vincere, ma convincere; non soppiantare, ma rappresentare), una volta in possesso delle loro nuove terre, l’Oppdic esige la loro adesione. Ai recalcitranti, vengono tolti case, raccolti o camion, vengono espulsi e così nasce una nuova generazione di sfollati.

In questa area rioccupata, i pesci “bravi” disarticolano i municipi autonomi, minacciano le scuole e le cliniche alternative, inquinano terre rigenerate o riforestate dall’agroecologia zapatista, rendono impossibile il nuovo mercato giusto e senza sciacalli delle cooperative di successo. Cioè, incomincia un paziente lavoro di demolizione della via politica costruita dai caracol. Se l’EZLN tornasse a difendere le sue terre recuperate come ai tempi armati della clandestinità, si direbbe che ha violato la tregua e la legge sul dialogo e verrebbe incolpato di condurre una guerra intestina ed il tutto verrebbe definito come un conflitto intra o inter comunitario di indigeni contro indigeni. È il nuovo volto della guerra con maschere politiche, quella delle sigle imbroglione dei pesci “bravi”.

Oltre a questa tattica ingannevole, qual è la strategia? Per capire, dobbiamo rovesciare il ragionamento partendo dal fine progettato. L’orizzonte è la privatizzazione delle risorse naturali della selva, porta chiapaneca del corridoio biologico che va da Puebla a Panama: la zona petrolifera i cui pozzi sono stati tappati dal 1993 col rilevamento dell’EZLN; le acque dolci dei fiumi e dei laghi delle vallate; la ricchezza del legname; le piante medicinali bramate dall’industria farmaceutica; il bottino della diversità vegetale già biopiratata, cioè già esportata clandestinamente o candidata alla transgenizzazione; i fiumi abbondanti, i paesaggi e la fauna esotica per il turismo elitario di avventura. Un affarone per l’accumulazione (straniera) di capitale nella sistematica crisi finanziaria e di produzione, facilmente giustificabile attraverso varie abili motivazioni ecologiche.

Questa ricchezza enfatizzata dagli accordi di San Andrés, territorializzata nelle terre recuperate, è quella che vigila l’Esercito col pretesto di un contenimento dell’EZLN, come ha spiegato Andrés Barreda sulla mappa: zona grigia e risorse naturali coincidono. Se la gestione dello zapatismo rimane vincente, la sua privatizzazione è impossibile, ma con la docilità verso il potere dell’Opddic e degli altri pesci “bravi”, diviene fattibile.

Il mezzo? La riforma salinista dell’articolo 27 costituzionale e la sua legge di attuazione. Legalizzando la rioccupazione dei loro antichi padroni, i nuovi ejidi dell’Opddic sono ipso facto privatizzabili grazie al Procede, ancora optativo (il che esclude che gli zapatisti lo accettino), ma già in gestazione attraverso gli avvocati dell’Opddic. In tempi “migliori”, i caracol , i municipi autonomi e le giunte di buon governo si potrebbero trasformare in livelli di governo senza territorio né basi, le sue scuole rimarrebbero senza alunni, le sue cliniche senza malati, le sue coltivazioni agroecologiche sarebbero transgenizzate ed il suo commercio alternativo senza clienti. Se questa strategia vincesse, gli zapatisti si ritroverebbero nell’impossibilità di agire. Ed i contadini ed indigeni dell’Opddic? Semplice, si convertirebbero, dentro i loro stessi ejidi, in servi delle transnazionali installate nelle terre fino ad oggi recuperate ed ora rioccupate, ormai non più da pesci “bravi”, ma invece da pezzi grossi: i nuovi operatori sistemici dell’ultima ondata capitalista.

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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