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Marcos: Gli zapatisti non propongono di dividere il paese, ma di unire i poveri

Il subcomandante esorta tutto il Messico a ribellarsi per cacciare ricchi e politici


di Hermann Bellinghausen
La Jornada

7 marzo 2006

San Pablo Toliman, Qro. 6 marzo. “Noi zapatisti non proponiamo di fare a pezzi il paese, ma di unirlo, ma unirlo dal basso, con la gente umile e semplice, non con i politici ed i ricchi”, afferma questa mattina il subcomandante Marcos nel centro di questa piccola località rurale del municipio di Tolimán. Ancora una volta, un tipico villaggio di donne sole, di anziani. Tra il centinaio di persone che l’ascoltano, si nota un gruppo di studenti della scuola secondaria, quasi tutte donne, con le loro divise verdi e la loro ingenua curiosità; loro non hanno gli atteggiamenti impenetrabili, diffidenti di chi ha visto e sentito molto e non si scalda alla prima scintilla.

A questo doppio pubblico si rivolge il delegato Zero, da una piattaforma, specie di forum pubblico, a fianco dell’atrio della parrocchia di San Pablo. I potenti, assicura, “vogliono dividere il paese ed hanno un piano per farlo. E lo dicono molto chiaro, non vi stanno ingannando. Lo stanno dicendo nella loro proposta di governo i tre principali candidati, Roberto Madrazo, del PRI, Felipe Calderón, del PAN ed Andrés Manuel López Obrador, del PRD.

“Non si può fare quello che dicono che faranno. Non si può dire che si farà un governo dove tutti staranno bene, perché lo sappiamo bene, compagni e compagne, che i ricchi stanno bene perché noi siamo poveri. I ricchi accrescono le loro ricchezze perché ci tolgono la terra, il lavoro. Non è possibile che in questo paese possano prosperare contemporaneamente ricchi e poveri. Perché i ricchi sono quelli che fanno e producono i poveri”.

Riceve il delegato zapatista il Consiglio Promotore di Unità Popolare. Contrariamente a quanto accaduto in altri eventi pubblici nel corso dell’altra campagna, c’è scarsa partecipazioni della gente locale che fa piuttosto domande o esprime dubbi riguardo alle elezioni, o chiede se il Sub vuole essere presidente, oppure se le richieste zapatiste non significhino “separarsi” dal paese. Forse non tutto il pubblico condivide questa diffidenza, ma Marcos rivolge a tutti un’appassionata dichiarazione di identità messicana.

Vuoi essere un cameriere o il giardiniere dei ricchi?

“Noi siamo indigeni del Chiapas. Prima di organizzarci eravamo trattati come stranieri nella nostra stessa terra. Eravamo disprezzati per il nostro colore, la nostra lingua, la nostra cultura. Trattavano meglio qualcuno che parlava in inglese di altri che parlavano una qualsiasi delle nostre lingue maya. Non solo non ci rispettavano, ci trattavano come animali e ci avevano completamente abbandonato.

“Noi amiamo la bandiera messicana, ci siamo sempre considerati messicani e vedevamo con dolore che questo paese, il Messico, ci espelleva e ci disprezzava. E non ci espelleva in un altro paese ma ci espelleva dalla vita, perché ci stava ammazzando lentamente. La nostra gente cominciava a morire di malattie curabili. Arrivò un momento che non avevamo altro rimedio che morire senza che nessuno se ne rendesse conto, senza che questo paese che si chiama Messico e che è la nostra patria, sapesse almeno che eravamo nati e che ora saremmo morti”.

È proprio in queste terre del centro della Repubblica dove l’identità messicana in più di un’occasione perde significato. Zona che espelle la forza lavoro indigena e contadina, dipendente dalle rimesse in dollari e dalle chiamate a lunga distanza nei fine settimana. Marcos racconta che, dopo la ribellione del 1994, “e come nella Rivoluzione Messicana dissero di Villa e Zapata, di noi dissero che eravamo stranieri, che eravamo narcotrafficanti, gente che stava ingannando gli indigeni. Noi non eravamo un pugno di persone, eravamo migliaia di uomini, donne, bambini ed anziani, tutti indigeni”.

In questa località polverosa e semispopolata, il subcomandante passa alle sue domande: “Che cosa faremo qui a San Pablo Tolimán con i nostri bambini e bambine? Diremo loro ‘se ti va quando crescerai andrai a fare la domestica nella casa di un ricco? Forse a sistemare il giardino o il campo di golf di un altro ricco, forse, riuscirai a diventare il suo autista’. E la terra che cosa produrrà? Che cosa mangeremo? Che speranza diamo ai nostri figli? E che speranza abbiamo noi che viviamo qui?”.

Il pubblico, composto da molti anziani, ascolta in silenzio. “Ci stanno promettendo che la gente di qui, di San Pablo Tolimán, sarà straniera nella propria terra, che bisogna cacciare e disprezzare. Siamo venuti a dirvi che noi, che stiamo nell’altra campagna, non permetteremo che questo accada a San Pablo Tolimán né in Queretaro, né in tutti gli stati della Repubblica né in tutte le comunità. Vogliamo organizzarci insieme a voi. Vi stiamo invitando a lottare, ma a lottare non più da soli, e perché una volta per tutte cacciamo i ricconi da questo paese”.

Insiste sui motivi della ribellione zapatista: “Volevamo che il Messico, il nostro paese, ci riconoscesse come messicani e messicane, perché questo paese non riconosce i popoli indios, li tratta con disprezzo, si prende gioco di loro, pensa che esistano solo per chiedere l’elemosina agli angoli delle strade. Dicemmo che bisognava riconoscere nella Costituzione i diritti e la cultura indigena. Che quello che stava facendo il governo era distruggerci in quanto indigeni. Che non volevamo smettere di essere indigeni, che volevamo essere messicani, indigeni messicani, che volevamo parlare la nostra lingua con orgoglio, che volevamo indossare i nostri abiti con orgoglio, che volevamo avere la nostra cultura con orgoglio e non che questo fosse motivo di scherno o disprezzo.

“Quelli che sono qui e mi stanno ascoltando, che hanno sangue indigeno, sanno che cosa vuol dire, sanno che cosa significa essere di questo colore, sanno come in questo paese si adula e si ubbidisce e si è servili con il ricco di colore bianco, mentre tutto quello che è scuro, piccolo o che parla un’altra lingua, ma una lingua messicana, è disprezzato. E noi siamo qui sa molto prima di loro, compagni e compagne, questa nazione l’hanno fatta gli indigeni, non gli europei né gli statunitensi. Noi abbiamo fatto tutto questo che ora incanta il mondo”.

È normale che nei piccoli centri abitati qualcuno dica, con candore, che è contento di vedere Marcos di persona perché l’aveva visto solo in televisione. Cioè, si conosce poco di lui e dello zapatismo. Come è normale, come accade oggi, che qualcuno che non necessariamente aderisce alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dimostri di conoscere la storia, gli scritti e le proposte dell’EZLN, e simpatizza seriamente. Tuttavia, qui l’avanzata neoliberista è penetrata più che in Chiapas e la popolazione ha scommesso di più sull’emigrazione, sui partiti politici e sui programmi del governo (gli stessi che la sera, durante la riunione con oltre 20 organizzazioni a Vista Alegre Maxei, Marcos definirà “bombe” lanciate contro i contadini).

Siamo parte di questa nazione

Quindi il delegato Zero riferisce dei negoziati col governo in San Andrés ed il successivo tradimento dei tre poteri dell’Unione. “Non siamo rimasti a piangerci addosso perché ci avevano ingannato. In quelle comunità dimenticate che mietevano solo morte, abbiamo cominciato a costruire la vita con il lavoro delle comunità. Siamo riusciti ad essere parte del Messico con orgoglio e dignità, siamo riusciti a sollevare la testa e dire siamo indigeni, ed obbligare il potente a riconoscerci, e non ci vergogniamo più di parlare la nostra lingua, non ci vergogniamo più di indossare i nostri abiti, non ci vergogniamo più del nostro colore, il colore della terra”.

Ma, aggiunge Marcos, gli zapatisti “ci siamo accorti che i popoli indios del Chiapas non erano gli unici ad essere maltrattati ed abbiamo conosciuto anche la situazione degli indigeni di Queretaro, che erano disprezzati dai signori del denaro e della politica”.

A questo punto, avverte: “Quello che sta accadendo nel nostro paese non è quello che succedeva in passato, quando i ricchi se ne stavano là nelle loro grandi città e noi qua con tutta la nostra povertà, nella nostra casa, nel nostro ejido, nella nostra terra comunale, nella nostra milpa. Non è più così. I ricchi non si accontentano più della ricchezza che possiedono, vogliono tutto. E vogliono anche questa povertà che possediamo, queste terre sulle quali stiamo qui a San Pablo Tolimán. E vogliono le vostre sorgenti, vogliono i vostri boschi e vogliono i luoghi dove vivete”.

Poi dichiara: “Se lasciamo che questo accada, la nostra patria che è il Messico morirà”. Come in altre occasioni e piazze, ribadisce che “le proposte di quelli che stanno in alto sono tutte uguali”, non importa da che partito provengano. “Non ci può essere una soluzione dall’alto, dobbiamo organizzarci dal basso. E noi abbiamo visto, secondo la nostra esperienza e secondo quanto abbiamo ascoltato in Queretaro da gente umile e semplice come voi, che si può costruire un migliore livello di vita in una comunità se la gente si organizza. Ed invece ci hanno raccontato che quando la gente non si organizza dal basso, i governi gli fanno quello che vogliono. Quando la gente si organizza non si lascia ingannare tanto facilmente ed esige ed obbliga i governanti a compiere il loro dovere”.

Dall’esperienza delle comunità zapatiste del Chiapas, in questo luogo apparentemente deserto di speranza o disposto a continuare a credere alle promesse, Marcos afferma: “Il governo a volte non ammazza con le pallottole, ammazza con l’oblio, con il disprezzo. Incomincia ad eliminare tutti i servizi o renderli più cari e aspetta che la gente si disperi e se ne vada da un’altra parte, diventi criminale o muoia”.

Invita i presenti di San Pablo ad unirsi a “quest’organizzazione nazionale senza smettere di essere quello che siete, ed invece di stare inermi a guardare chi ci deruba o fa le leggi per derubarci, ribaltiamo tutto il Messico per cacciare i ricchi che vivono alle nostre spalle ed anche i politici, non importa a quale partito appartengano”.

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